Ogni emozione viene scandagliata: il primo palpito d’amore, tutti gli escamotage utilizzati per frequentarlo, gli sguardi, le speranze e le ritrosie […]. Tutti questi sentimenti vengono trasmessi in scena da Giuva con una sincerità assoluta, diventando paradigmi di tutti i primi amori adolescenziali con le loro speranze e le loro disullusioni.
Danilo Giuva, alla sua seconda prova in solitudine dopo lo strabiliante “Mamma”, si impossessa del poemetto shakespeariano ed estremizza la complementarità̀ tra i due personaggi, rendendoli addirittura speculari; ecco spiegato, a nostro modesto parere, il motivo della presenza nel titolo di quello slash, di quella barra, obliqua come la storia che vi si racconta, che non divide ma, al contrario, alimenta un’ulteriore contaminazione tra gli universi idealmente presenti sul palco (uomo/donna; divino/umano; istinto/ragione), aggiungendo alla storia del Bardo un personalissimo tassello, spostando sulla propria pelle, con ironia ed eleganza più uniche che rare, il gioco delle parti, decodicando, coniugando e superando tutti gli archetipi legati all’amore, alla passione, al desiderio.
Eco allora ardori e delusioni, incertezze e slanci arditi, fra sesso e tenerezze, con il porsi in scena del protagonista ora inserito nella aulica estenuazione del Mito complice la poesia di Shakespeare, ora in veste più ironicamente giovanilistica, anche con sound da discoteca sullo sfondo.
Chiude Venere/ Adone Giuva, in posa con suo collare cinquecentesco: ritratto dell’artista da giovane, un po’ irretito e sconvolto dalla forza di Eros e dei suoi misteriosi sentieri, nel bosco chiaroscuro dell’amore. Applausi al lavoro e all’attore dal pubblico.
Crediamo che la sua collocazione ideale sia quella che lo pone di fronte a un pubblico giovane che tende a leggere una messa in scena per empatia e immedesimazione, preferenzo la realtà, o quella che sembra tale, all’artificio.
24 maggio 2022
Ci sono artisti del teatro che arrivano al mestiere partendo da posizioni laterali, d’altronde spesso si è detto quanto il palcoscenico e le sue pratiche siano in grado di attrarre, di dare il coraggio per cambiare vita; Meldolesi e Taviani parlando del brulicare teatrale europeo del primo Ottocento evidenziavano come il teatro potesse essere anche un “luogo per accogliere transfughi”, per chi sfiduciato dai fallimenti delle rivoluzioni avesse bisogno di costruirsi un mondo a misura. Nel concreto effimero del teatro i cuori inquieti trovano questa possibilità e una comunità con la quale erigere se non un nuovo mondo almeno spazi di libertà. Anche Danilo Giuva, foggiano, classe ‘78, è stato un transfugo, fuggito da un lavoro che lo rendeva benestante, ma infelice, con una laurea da chimico in tasca scelse la via del teatro rispondendo a un innamoramento cominciato nell’infanzia e concretizzatosi poi nello studio attraverso un percorso laboratoriale. Dopo l’incontro con Licia Lanera, Giuva ha cominciato anche a crearsi una via autoriale, prima con Mamma, in cui era uno splendido interprete di Annibale Ruccello e ora con Venere/Adone di cui cura il testo e la messinscena.
Qui, soprattutto nei primi minuti, non sembra esserci la volontà di costruire una pièce di rappresentazione, anzi la forma è quella del talk, potrebbe sembrare una divertente lezione sul Venere e Adone di Shakespeare: l’attore incalza il pubblico, chiede chi abbia mai letto il testo. Alla sua sinistra una riproduzione del dipinto di Venere e Adone, la celebre composizione cinquecentesca di Tiziano (esistente in più versioni); il giovane e bellissimo Adone tenta di fuggire dall’abbraccio di Venere per correre verso una passione più forte, quella della caccia. Siamo di fronte dunque all’amore impossibile, non ricambiato, quello alimentato da un bacio dato con altri scopi o per pura voluttà. Il poema venne scritto, come Il Ratto di Lucrezia, nel 1593, proprio l’anno in cui i teatri elisabettiani dovettero rimanere chiusi a causa della peste. Giuva, che questo spettacolo lo aveva pensato prima del blocco causato dalla pandemia per il pubblico dei giovani, alterna il commento del mito alla recitazione al microfono del testo shakespeariano. Un approccio delicato, senza barocchismi o ricerche vocali estreme, eppure efficace.
Siamo al Quarticciolo – lo spettacolo è inserito nella rassegna Lo capisce anche unə bambinə – con il suo modo di fare Giuva crea da subito un’atmosfera di relazione e allegria: quasi sfacciatamente si prende gioco del mito e di Shakespeare, “Guglielmo”, ma proprio quando la parodia e l’irrisione sembrano prendersi la scena qualcos’altro lentamente inizia ad affiorare. Siamo nell’adolescenza dell’attore: come ci siamo finiti? Le scuole superiori e un amore non corrisposto: quel ragazzo, l’oggetto dell’amore ostinato, è Adone, già fidanzato con una ragazza, amica del nostro protagonista. Classica e dolorosa triangolazione adolescenziale fatta di speranze disattese, giornate intere passate a leggere i segni possibili, lo scontro con le convenzioni sociali, il campeggio in tre, solo per stare con lui. Passano quattro anni e poi un bacio, è il bacio di Adone a Venere svenuta. Non è semplicemente la vita che fa da specchio all’arte (o il contrario), è una storia in cui a un certo punto Venere deve scegliere e Danilo sceglie di non nascondersi, di non accettare la richiesta di Adone: fuggire e ricominciare un’altra vita, lontano da quella società e dall’imbarazzo di un amore tra giovani uomini.
Dicevamo di come questo lavoro sia nato proprio per un pubblico di nuove generazioni, si spera allora di vederlo replicare anche nelle scuole: che possa fare da specchio a giovani vite, a cuori inquieti, schiacciati dal pensiero che “di amore non godranno mai più”.
21 novembre 2022
«Sospendere il giudizio». É il monito con cui si apre lo spettacolo Venere/Adone, andato in scena al Teatro Fontana di Milano dal 17 al 20 novembre 2022. In una spoglia scenografia, un riquadro di luci delimita lo spazio entro cui si svolgerà l’azione e posta al suo interno, su di un cavalletto, una riproduzione del dipinto di Tiziano Venere e Adone, ispiratore (si ritiene) per Shakespeare nella stesura del poemetto che Danilo Giuva porta in scena. Il racconto del mito segna l’avvio. Esso procede per citazioni tratte dall’opera shakespeariana, citazioni che l’attore, unico a comparire in scena, declama e commenta, stando saltuariamente seduto sulla sua cattedra. Alla stregua di un bravo insegnante, tenta di fare da educando del proprio pubblico, ammaestrarlo su di una materia spinosa e arzigogolata. Giovane e bellissimo, Adone compie ogni sforzo per fuggire dall’abbraccio di Venere, per correre verso una passione più forte, quella della caccia. Le spasmodiche dichiarazioni e i tentativi di seduzione della dea non sortiscono alcun effetto: l’amore che lei insegue è impossibile, non è ricambiato, per quanto ella si illuda.
Sulle note di Fiamme negli occhi (il brano del duo musicale Coma_Cose), l’illusione di Venere esplode, trova forma concreta nella musica e nella danza dell’attore in scena. Brano contemporaneo in un poemetto shakespeariano, un connubio atto a significare il “senza tempo e senza spazio” di un sentimento, ma anche occasione perché il corpo dell’attore si liberi, marcando così (forse) un passaggio: dalla materia del poemetto alla persona dell’autore, il cui racconto diventerà oggetto del secondo momento dello spettacolo. L’amore è confusione che parla la lingua dell’infelicità: Venere, la divinità dell’amore, è vinta dal rifiuto del suo amato, il quale sceglie di inseguire il suo di amore, ossia la caccia, non importa se questa coincida con la morte. Adone parte, va, insegue il cinghiale le cui bianche zanne saranno la ragione della sua fine. Torna una volta di più quell’atavico connubio, i due inscindibili opposti: ἔρως e θάνατος, amore e morte. Ma il connubio si moltiplica in una serie di opposti: desiderio e avversione, rifiuto e assenso, passione e indifferenza, tenerezza e crudeltà. Venere ha tentato di vincere la resistenza di Adone con ogni mezzo, dalla seduzione alla più o meno chiara ragione, adducendo varie argomentazioni; tra queste, che egli non possa sottrarsi alla natura di giovane uomo. Così facendo manifesta una volta di più la sua sconfitta, proprio nell’incapacità di comprendere che Adone, infine, segue la natura, la propria. L’esperienza di Venere e Adone, il poemetto di Shakespeare, questi sono solo un pretesto perché Danilo Giuva sposti il baricentro dal racconto dalla passione amorosa della dea alla sua. Dismessi i panni del narratore, gettata via la posa didascalica, il maestro scende dalla cattedra e diviene quell’uomo qualunque vinto dall’amore. Lui non vuole rinunciare all’amore verso cui la sua natura lo guida, al suo desiderio.
Egli ha amato, amando il fidanzato della sua migliore amica. Quell’amore che ha in sé una traccia di proibito, quell’amore impossibile che induce chi lo vive a cercare prove (come ha fatto Venere) che sia corrisposto. La prova può esser ingannevole, generata da uno sguardo che vuol veder quel che non c’è. Ma è la prova di cui l’amore dell’attore si nutre. Nella penombra della sala si consuma tutto il dolore del rifiuto cui va incontro Danilo Giuva. L’attore si è immerso nel mito per parlare di identità di genere, scoperta del corpo, desiderio e, alla fine, ha recitato sé stesso. Il suo dramma è autobiografico (come tale è presentato). Il suo dolore ha quell’universalità che mette alla prova il sentimento d’amore. Infondo, assolutamente irrilevante è la sua direzione, l’oggetto del desiderio. «Da che tu [Adone; è Venere che parla] sei morto, ecco, io predìco che l’affanno, d’ora innanzi, andrà congiunto con l’amore […]. E l’amore sarà volubile, falso e pieno di frode, sboccerà e sarà maledetto nell’attimo d’un sospiro […]; insegnerà alla decrepita vecchiaia a muovere passi di danza […], renderà vecchi i giovani, e i vecchi farà tornar bambini. […] color che meglio amano del loro amore non dovran godere».
6 dicembre 2022
Londra, 1593. La peste si diffonde a macchia d’olio sulla città e i teatri sono chiusi per contrastare il diffondersi dell’epidemia. In questo scenario tutt’altro che rassicurante William Shakespeare pubblica il poemetto Venus and Adonis, uno dei suoi lavori meno conosciuti, testo di riferimento di Venere / Adone, produzione Compagnia Licia Lanera con l’interpretazione di Danilo Giuva – regista e unico protagonista – che, a partire dal racconto del mito, porta in scena una profonda riflessione sul tema dell’amore e sulle difficoltà dell’esperienza amorosa. Lei, Venere, dea della bellezza, è una donna pazza e malata d’amore. Lui, Adone, è un giovane dalla bellezza disarmante, innamorato della caccia e indifferente alle ossessioni amorose di lei. E così, recitando le loro confessioni e intenzioni più intime dietro a un microfono, Giuva veste contemporaneamente i panni di Venere, di Adone e di un docente super partes che commenta e interpreta con ironia e umorismo le azioni dei due protagonisti del poemetto, giocando e facendoci divertire nel tentativo di renderle più umane e terrene. ù Ci racconta che Adone, per sfuggire alle avances di Venere, utilizza patetiche scuse, per esempio dichiarando che deve andarsene perché il sole gli brucia il viso. O di quando Venere – da vera “sottona” del XXI secolo – si illude che Adone si sia follemente innamorato solo perché l’ha baciata per rianimarla dopo che era svenuta. Il raggiungimento del settimo cielo che Giuva ci mostra trasformando la dea in una pop-star dei giorni nostri che si scatena sulle note di Fiamme negli occhi dei Coma_Cose, come farebbe qualunque ragazzina nella propria cameretta. E quella canzone indie-pop, tra le poltrone, la ascoltiamo e la cantiamo anche noi. Metà sono una donna forte, decisa come il vino buono. Metà una Venere di Milo, che prova ad abbracciare un uomo. E anche se qui c’è troppa gente, io me ne fotto degli altri e te lo dico ugualmente: resta qui ancora un minuto, se l’inverno è soltanto un’estate che non ti ha conosciuto; e non sa come mi riduci, hai le fiamme negli occhi ed infatti se mi guardi mi bruci. Lei lo attrae, lui non cede. A nulla servono gli abbracci, le carezze e le raccomandazioni da vera crocerossina, il giovane uomo parte per una battuta di caccia al cinghiale che gli sarà letale. L’amore per sé stessi vince sull’amore per l’altro. Adone muore, ma facendo l’unica cosa che ama: cacciare.
E poi l’amore oggi. Partendo dalle dinamiche relazionali tra i due personaggi shakespeariani – che ora ci sembrano più vicini a noi – Giuva amplia la sua riflessione sull’amore, approdando in una storia d’amore dei giorni nostri, anch’essa incompiuta, tra due uomini, tanto simili ai lontani Venere e Adone per atteggiamenti, paure ed emozioni. Ci racconta di un ragazzo che s’innamora del fidanzato della sua migliore amica. Della gioia che prova quando lo vede, tanto grande quanto la tristezza nel sentirsi rifiutato. Delle farfalle nello stomaco che sente quando una sera, in macchina, si danno il primo bacio. Fino alla sofferta decisione di porre fine alla relazione quando l’altro gli propone di scappare per ricominciare una vita insieme, lontani da tutto e tutti, come se fosse l’unica soluzione possibile per poter vivere il loro amore. E poi il dolore più grande quando, durante una cena, la migliore amica e il ragazzo annunciano che si sposeranno, chiedendogli di essere il loro testimone di nozze. Amore non mi lasciare, ti prego. L’ultimo urlo straziante di Giuva, che si riscopre, tra le lacrime, malato d’amore come la Venere shakespeariana. E con le luci soffuse e una musica malinconica in sottofondo, realizziamo che Venere / Adone altro non è che la storia di tutti noi. Ci sentiamo uniti e simili in quel senso di precarietà che inevitabilmente si crea quando si va alla ricerca della verità, nel tormento della lotta interna, nel senso di incompiutezza e nel dolore che il desiderio inespresso genera. E ci riscopriamo, tra le poltrone della sala teatrale, protagonisti di uno stesso racconto universale dove, almeno una volta nella vita, siamo stati Venere o Adone.