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Il gabbiano

CREDITI

 

di Anton Cechov

 

con Giandomenico Cupaiuolo (in sostituzione di Continelli per infortunio),

Mino Decataldo,

Alessandra Di Lernia,

Caterina Filograno,

Jozef Gjura,

Marco Grossi,

Licia Lanera,

Fabio Mascagni.

.

luci

Cristian Allegrini

musiche originali

Qzerty

scene

Riccardo Mastrapasqua

costumi

Angela Tomasicchio

assistente alla regia

Ilaria Bisozzi

adattamento e regia

Licia Lanera

co-produzione

Compagnia Licia Lanera

Teatro Metastasio di Prato, TPE

TPE – Teatro Piemonte Europa

Si ringrazia

Fauso Malcovati

Guarda come nevica” è un unico lungo spettacolo in tre tempi. Dopo Cuore di cane, eccoci al tempo secondo: Il Gabbiano

Un unico cuore, quello ghiacciato, simbolo della Russia e dell’atrofia del dolore, tre generi letterari, una scena che si incastra dentro l’altra, un filo rosso che unisce le tre opere, e neve, tanta neve. Cechov vive la sua vita divisa tra medicina e teatro; “anatomista dell’animo umano” sceglie di starsene insieme ai suoi personaggi, profondamente attaccato alla terra, quella di campagna. Cechov, racconta le tragedie private di uomini e donne piccoli piccoli dalla vita costellata da fallimenti, che non lasciano traccia nella storia e si consumano nelle case. Una tristezza infinita, una paura della vecchiaia, della solitudine, un tempo dilatato e vuoto in cui si muore piano piano, un gusto smisurato e allo stesso tempo misuratissimo per la sconfitta. 

Per la prima volta Licia Lanera si confronta con un classico della drammaturgia con una squadra nutrita di attori. Attraverso questo testo, che racconta la disillusione di diventare adulti e fa una riflessione sul teatro, la Lanera ragiona su di sé come donna e artista alle soglie dei 40 anni. Quale commedia migliore per riflettere sul ruolo stesso che il teatro ha nella vita dei teatranti stessi, in quella degli uomini, nella storia? Quale migliore occasione per parlare della vita che schianta i nostri sogni giovanili e ci fa diventare diversi da quello che pensavamo che saremmo diventati? Quale testo migliore per parlare di grandi attrici dalla vita disastrata, scrittori senza carattere, giovani drammaturghi disperati e giovani attrici disilluse? 

In campagna, nella tenuta di Sorin, fa caldo, un caldo torrido, ma in questo Gabbiano nevica lentamente, una neve che gela i cuori, li pietrifica e tutto diventa bianco. Una campagna tutt’altro che idilliaca, dove come dei sequestrati, stanno i personaggi. Tutti lì, in quelle tre, ma forse quattro, pareti del palcoscenico, gli attori sempre in scena, sono impossibilitati ad uscire. Personaggi grigi, ammalati di grigieria, consumano le loro giornate ironizzando sulle loro miserie, disperandosi, guardandosi, amandosi, costretti a stare sempre assieme. Corpi che si guardano, che si riconoscono e che si toccano. Uno specchio vivissimo dei mediocri che siamo. 

Il Gabbiano è il secondo episodio della trilogia Guarda come nevica, che include tre testi e tre spettacoli sulla neve, tre autori russi e tre generi letterari. Il progetto prevede un lavoro di tre anni che comprende, oltre il testo di Cechov, Cuore di cane di Michail Bulgakov e Aprile, scrittura originale di Licia Lanera, ispirata alla figura e alla produzione poetica di Vladimir Majakovskij. 

Sguardi Critici

Ora per Il gabbiano riunisce una vera e propria compagnia e più che riscrivere il testo se lo adatta, rispettandolo profondamente, cercando spiriti di non banale corrispondenza. Sembrerebbe un approdo alla prosa tradizionale che altri nati nel teatro di ricerca o d’autore (chiamatelo come volete) hanno computo: in realtà si tratta di un corpo a corpo con la tradizione, per fotografare il presente (e l’assente). 

Massimo Marino, Doppiozero

Venendo adesso allo spettacolo visto al Metastasio, direi, in sintesi, che con lucida strategia Licia Lanera mette in campo un sistema (sì, un vero e proprio sistema) d’invenzioni, tutte volte – sul filo di un’esemplare coerenza – a sottolineare e amplificare i nodi drammaturgici decisivi del testo: partendo da quello, fondamentale, costituito dal tempo, che qui risulta straordinariamente dilatato.

Vedi, in proposito, il Sòrin che ripete per ben quattro volte l’ultima parola delle proprie battute: si va, poniamo, da «ti fai il sangue cattivo cattivo cattivo cattivo» a «volevo vivere in città, e finisco la mia vita in campagna campagna campagna campagna»; e vedi il fatto che determinate battute succedano ad altre nei termini di un vero e proprio eco: ciò che accade, sempre per proporre un esempio, quando Mascia dice: «Mi trascino dietro la vita come uno strascico senza fine» e Dorn replica canticchiando: «Senza fine, tu trascini la nostra vita…», unendosi poi all’Arkàdina e alla stessa Mascia nell’intonare in coro: «Non m’importa della luna, / non m’importa delle stelle…».

Enrico Fiore, Controscena

“Il gabbiano” di Licia Lanera risulta così essere uno spettacolo di corpi e di rapporti, di critica al teatro, così come di messa in scena di nuove possibilità narrative, il tutto trascinando il pubblico di dialogo in dialogo, di gesto in gesto, fino al maestoso finale innevato.

Luca Romano, HuffPost

Il groviglio di simboli che innerva ‘Il Gabbiano’ continua a sedurre teatranti. Licia Lanera cede alla tentazione e si avventura nell’intrico. All’interno di questo ‘recinto’, ora sdraiati, ora no, gli interpreti danno vita a un valzer stanco ed anche triste della irrequietezza insoddisfatta, del velleitarismo e dell’improduttività. Un po’ imprendibili, si agitano stancamente offrendo l’impressione – falsa – di prendersi sul serio. In realtà sono estranei a sé stessi, immersi in una bolla temporale che solo in modo vago odora di presente, come suggerito dai costumi di scena. Sono vivi? L’interrogativo assume maggiore consistenza nel breve secondo tempo dello spettacolo, corrispondente all’originale quarto ed ultimo atto. Le brandine sono sparite per fare posto a microfoni davanti a cui i personaggi tirano le somme. Sembrano compagni di scuola, reduci di guerra che si ritrovano dopo un lasso di tempo immemorabile, lasso che nel copione d’origine corrisponde a due anni. La neve che scende (guarda come nevica…) accentua tale senso della distanza e insinua l’idea d’un ritrovarsi ancora più straniato, quasi ambientato in un personale Aldilà. E qui il lavoro della Lanera conosce come un’impennata. Perché se Cechov fa del conclusivo suicidio di Treplev il più vistoso elemento di una cattedrale della sconfitta, Licia Lanera, al contrario, nel finale un po’ ‘epico’ (ed enfatizzato dalle scelte musicali di Qzerty) volta il gesto di Treplev in una sorta di doloroso balzello indispensabile ad una collettiva ed inattesa catarsi. Il senso della speranza nel tragico gesto di Treplev è possibile lettura di questo corposo allestimento.

Italo Interesse, Quotidiano di Bari

C’è un’oscura simmetria in questo dramma silenzioso come un volo di un gabbiano verso la libertà, l’ultimo volo, che si scopre essere invece uno slancio verso la fine e la schiavitù in una vita impagliata, decisa da altri o dal disamore. Tutti i personaggi hanno un alter ego, sia fuori che dentro sé stessi. Il giovane Konstantin, che mai conoscerà davvero il successo, e l’affermato e maturo Trigorin, sono due facce della stessa oscillazione, della stessa parabola esistenziale. Una veduta sottile e malinconica sul fallimento, sulle illusioni e l’indifferenza dell’esistenza tratteggia Cechov in questo racconto senza fine e senza principio. Cristallizzazione di un’evoluzione impossibile anche tra la debuttante Nina, infatuata da un’idea fragile sul teatro, che sconterà a sue spese, e la consumata attrice Irina, madre di Konstantin, carica di un passato che la soverchia col suo inevitabile senso del tempo e inguaribile cinismo. Oscura corrispondenza anche tra ciò che accade in scena e ciò che la stessa scena nasconde attraverso personaggi assenti, visto che Cechov i fatti più rilevanti o magnetici, da un punto di vista drammaturgico, lì faceva accadere solamente nelle parole raccontate dai personaggi, uno su tutti il tentato suicidio di Konstantin tra l’indifferenza e la morte partecipazione dei presenti, mentre in questo adattamento tutto si vede e tutto è celato in uno stato evanescente, come la neve che ricopre funerea ogni gesto e ogni parola, in un incanto che sa di sogno e di morte.

Emanuele Martinuzzi, Teatrionline

Licia Lanera ha magistralmente risolto questo annoso dualismo, mettendo in scena una versione de “Il Gabbiano”, per nostra fortuna inserita nel cartellone della annuale Stagione di Prosa del Comune di Bari e del Teatro Pubblico Pugliese per due serate che hanno fatto registrare altrettanti sold out del Teatro Petruzzelli, con cui ha dimostrato come sia ancora possibile riuscire a leggere l’opera cechoviana in nome della più spietata ma adeguata purezza, a due atti, con grande accuratezza, rispettandola più ideologicamente che filologicamente, attraverso la lente dell’Arte e della Cultura del presente, di cui la Lanera è, senza dubbio, tra le più fulgide rappresentanti.

Grazie alle scelte operate, è finalmente possibile riassaporare tutta la modernità del messaggio originale, con quel tema predominante che si può definire “carenza di comunicazione”, riformulato in modo così dolente ed attanagliante da far pensare al miglior cinema di Woody Allen e, perché no, del suo – e nostro – maestro Ingmar Bergman; in tal modo, Čechov emerge non solo come nostro contemporaneo, perfetto indagatore della spietata crudeltà di cui è capace l’umanità di ogni tempo ed ogni era, ma anche in tutta la sua deflagrante forza poetica, in piena aderenza con quanto affermava Lorenzo Gigli: “l’importante è che, comunque interpretato e recitato, il teatro di Cechov è teatro di poesia”.

Pasquale Attolico, Cirano post