«Per raggiungere quel grado di immersione e compromissione, l’attore e l’attrice non hanno avuto scampo, hanno vissuto insieme, hanno condiviso il testo e lo hanno incorporato, sono stati incredibilmente vicini e affettuosi per poi farsi schifo a vicenda. E per questo sono stati interpreti dalla sensibilità pratica, quella che diventa strumento tecnico, dosata con rigore, cervello e cuore, un esperimento di memoria sia del fatto in sé che dei corpi. Non hanno assolto un compito, non hanno imparato la parte, ma hanno fatto esperienza della mostruosità, per questo il loro è un gesto attorale incandescente, né morboso, né pornografico»
Lucia Medri, Teatro e Critica
“Con la carabina di Pauline Peyrade è un testo che sa essere preciso, realistico e al tempo stesso, pieno di non detti, un puzzle rotto che si costruisce pian piano, tassello dopo tassello fra i baracconi di un Luna Park, i premi e i pelouche al tiro assegno, la fiducia nei confronti di quel ragazzo, amico del fratello e tanto ben voluto da mamma. Raccontato così Con la carabina potrebbe apparire cronachistico, documentale, didascalico, ma non lo è. La scrittura drammaturgica di Peyrade decostruisce e mischia i tasselli della vicenda, usa prolessi e analessi con spudorata disinvoltura e ciò permette non solo di giocare con l’indeterminatezza e la sospensione del tempo, ma anche con un modello di narrazione che si costruisce pian piano, rifacendo ordine nel racconto agito in scena.
Ciò è reso dai due protagonisti Danilo Giuva ed Ermelinda Nasuto con grande precisione e con misurata emotività, ogni gesto, ogni espressione del corpo non può che essere controllata, lo impone la prossimità con gli spettatori, lo impone lo spazio scenico ristretto che richiedono una misura attoriale che non abbia l’eccesso del teatro, ma piuttosto il suggerimento, i micromovimenti del cinema. Tutto questo compartecipa certo a far sì che Con la carabina si offra come un lavoro in sé concluso, molto compatto e al tempo tesso capace di seminare in chi vi assiste, di trasmettere quel senso misto a vergogna e impotenza rabbiosa che agita la protagonista, la donna che arriva a voler vendicare la bambina rubata dall’orco di casa. Tutto questo è diretto da Licia Lanera con grande precisione e senso di servizio al testo e agli attori, un senso di servizio che si trasforma in senso di testimonianza e che conquista calorosi e commossi applaudi da parte del pubblico di Polis Teatro festival, coproduttore dello spettacolo”
«La scrittura della Peyrade sollecita interrogativi, fomenta ambiguità che Lanera sembra amplificare nell’adattamento che elimina il doppio tempo della narrazione e rende il testo un unico flusso di parole e sentimenti creando uno spaesamento perturbante. Il suo è un lavoro registico di estremo rigore e nitore, nello stesso tempo ad alto contenuto emozionale ma stranamente raggelante, in cui sembrano sbiadirsi le figure di carnefice e vittima per lasciare spazio a due fragili simboli di un presente che si tinge di disumanità. Le repliche baresi sono ambientate in un luogo «segreto» che meglio non poteva essere scelto. Un locale abbandonato in un rione popolare, un tempo utilizzato dai giovani per ballare e sentire musica, uno scarno spazio straordinario che consente la presenza di poco più di venti spettatori a sera. Un pubblico costretto quasi a sfiorare gli attori e a cui non è consentito venir fuori dalla rappresentazione. Nei primi minuti la location sembra fagocitare tutto e tutti ma poi la bravura dei due protagonisti, Ermelinda Nasuto e Danilo Giuva, ha la meglio. In ruoli affatto semplici i due attori sanno rendere i loro personaggi con una distanza quasi critica ma nello stesso tempo non rinunciando alla forza dell’emozione. Una bella prova la loro che si somma all’accuratezza di tutta la rappresentazione – magnifica la ruota da parco giochi in miniatura- in cui spicca l’ipnotica attrazione della base musicale di Francesco Curci
Nicola Viesti,Il Corriere del Mezzogiorno
« Una musica distorta, che si potrebbe definire ansiogena – sound design di Francesco Curci – quasi un rumore sordo che accompagna, già dalle prime battute, la scena, mentre le luci, curate da Vincent Longuemare, illuminano pienamente i soggetti.
È volutamente ingenua la recitazione di Giuva e Nasuto per permettere i passaggi frequenti dal linguaggio degli adolescenti a quello degli adulti. Si passa dalla luce piena, al focus suggerito da un cambio luminotecnico, gestito direttamente dai due attori, i quali spostano convulsamente le luci a seconda dell’ambientazione.
Sì, perché l’ambientazione si sdoppia, ora è il Luna park all’interno del quale il giovane tenta di insegnare alla bambina a giocare a tiro a segno, ora è un indefinito interno di abitazione. Si passa dalla accettazione passiva di un atto, quello sessuale avvenuto a scapito del personaggio interpretato dalla Nasuto, alla definizione attiva di una consapevolezza, quella di non aver voluto.
Ritorna qui Lanera a trovare in questo simbolo di innocenza e fragilità (il coniglio) presente in scena, l’essenza della sua cifra stilistica. Mostrare la tristizia imponendo allo spettatore, molto vicino alla scena, una sensazione di smarrimento e di oltraggio legato alla presenza in scena di un animale ‘vivo’. Chi conosce il lavoro precedente dell’artista barese troverà nel coniglio un rimando a quel teatro spietato popolato da mostri, in cui anche la vittima è costretta a diventare carnefice. Una regia, dunque, quella della Lanera, che ritorna alle origini del suo linguaggio, in cui i dialettismi si mescolano alla rappresentazione della realtà, a volte inesorabile e dissacrante. Una direzione che alla cruda e tangibile verità, mescola immagini che portano lo spettatore a capire che ciò che si sta guardando non è realtà, ma potrebbe diventarlo. Una scrittura quella della Peyrade decostruita, che analizza l’accaduto saltando tra passato e presente, tra luogo e non luogo, il tutto tradotto benissimo dallo spazio scenico underground scelto dalla regista Licia Lanera, un luogo non teatrale nella periferia del capoluogo pugliese. Con la carabina è uno spettacolo di ‘prossimità’, in cui la vicinanza con il pubblico crea un ostacolo che impone agli attori dei limiti fisici, mentre allo spettatore impone un limite di ‘coscienza’; si è costretti a compromettersi con l’azione a cui si assiste, sentendosi parte ‘attiva’ del tutto».
Liliana Tangorra su paneacquaculture.net, 27 ottobre 2022